Impressioni, pensieri, emozioni
Sei mesi fa, a seguito di una ricaduta dopo l’ennesimo programma terapeutico, mi impongo di non perdere la speranza e cercare una cura; qualcosa che mi possa aiutare e che non sia la solita minestra riscaldata, mangiata e rimangiata. Sono 20 anni che uso coca e 15 che cerco di smettere, tra terapie psichiatriche e psicoanalitiche, comunità terapeutiche e duri percorsi incentrati sul lavoro, la rinuncia, la fatica. Sono stanco.
Ogni volta si ripete sempre lo stesso copione, come in una piece teatrale dove il protagonista, non importa quale strada intraprenda, quali amicizie, quali situazioni trovi durante il suo cammino… dopo qualche mese si ritrova nella solita identica situazione, messo peggio di prima. Perché ad ogni ricaduta è come se si perdesse qualcosa. Come se una parte di noi morisse. Un perverso gioco dell’oca dove la pedina fa sempre lo stesso giro, che può essere più o meno lungo, più o meno fortunato, ma inevitabilmente sempre lo stesso.
A seguito del nuovo “incidente”, molti mi chiedono se dentro di me, in fondo, quello che faccio lo faccio intenzionalmente, e la disperazione che apparentemente manifesto non è che un meschino piangermi addosso. Ed io non posso far altro che combattere questa tesi, almeno ci provo, ma alla fine, dico la verità, comincio a credevi anch’io. Sono io che decido di ricadere, mi dico, quindi io il responsabile. So a che vado incontro ma non me ne importa un bel nulla.
E di questo argomento ci sarebbe molto da discutere e c’è chi meglio di me, dotato anche di competenze scientifiche lo ha già fatto. Voglio dire però ugualmente che spesso la mia intenzione era l’esatto opposto del comportamento che mettevo in atto: quando si è tossici si è succubi, impotenti, incapaci di prendere decisioni durature. Anestetizzato dai normali piaceri della vita, così indispensabili per un’esistenza serena, viva, non potevo che lasciarmi andare al “piacere dei piaceri”, l’unico in grado di farmi sentire vivo. Come un impulso viscerale, una bestia mi trascinava via.
Mi sono sempre rappresentato il craving come un animale che dimorava dentro me. Molto spesso l’ho sognato questo animale. Talvolta era un cane rabbioso. Talvolta me lo sono figurato come una belva indomabile e ingestibile. Talvolta lo immaginavo come un demone (a volte per gioco gli ho perfino dato un nome) in dormiveglia dentro di me, e se evocato, non c’era modo di fermarlo, tanta la sua potenza, la sua forza, il suo fascino. Era senz’altro una parte viva che albergava dentro me, con un’energia propria. Così sono arrivato a compiere gesti che normalmente non avrei mai compiuto. Mi ritrovavo con un me stesso all’opposto. Un ******* (o ******* usando l’acronimo del gioco) con valori completamente diversi da quelli in cui ho sempre creduto e che cercavo di rispettare. Ma non ero io. O invece si? Ricordo di essere stato profondamente colpito da un libro che ho letto intorno ai vent’anni. Il celebre romanzo di Robert Louis Stevenson, “Il dottor Jekyll e mr. Hyde”. Ecco io mi sentivo già allora così. Scisso, diviso. E insieme, profondamente inquieto e preoccupato; già allora con un fortissimo senso di colpa che mi lacerava le viscere. Non c’è cosa peggiore dal non comprendersi. Non c’è cosa più devastante nel non riconoscersi, nel non sapere chi siamo e nel non poter avere fiducia in noi stessi. Quindi si, mi piaceva. Ma a che prezzo. Solo un malato di mente può continuare consapevolmente a scegliere la strada della lenta distruzione, del degrado e della sofferenza, a discapito di tutto. Tutto, niente e nessuno esclusi.
Questi dubbi però non fanno che rafforzare il mio desiderio di vivere e di cercare una strada non ancora battuta. Siamo appunto agli inizi di ottobre e, tornato a casa dei miei, decido di chiudermici dentro. Esco solo con mio padre. Ho voglia di tornare a godere del mondo, della luce e del vento. Delle relazioni e dei piccoli, ma tanto preziosi piaceri della vita. Allora ogni giorno cerco, immagino, mi faccio una cultura di tutto ciò che esiste per sconfiggere la dipendenza, girando pagine su pagine in internet, mettendomi in contatto con i più illustri medici. Il problema però, che di terapie ce ne sono molte, ma la maggior parte già percorse o altre, pazzesche prese per i fondelli per chi, trovandosi in una condizione come la mia, farebbe qualsiasi cosa pur di nutrire in cuore un briciolo di speranza. Come per esempio la disintossicazione tramite ibogaina. Certe cliniche in Africa offrono un trattamento per disintossicarsi attraverso l’assunzione controllata del principio attivo di questa pianta (che tra l’altro credo abbia effetti psicotropi). Non so se possa funzionare e se abbia dei fondamenti scientifici, ma mi puzza tanto di una vera truffa organizzata. Se c’è una cosa che la vita da tossico mi ha insegnato, è il diffidare ed il tenere sempre gli occhi aperti.
Tra le infinite possibilità che offre il web mi imbatto nella Clinica Gallimberti & Bonci. Parla di una terapia nuova, ancora in fase di sperimentazione. Attraverso le onde magnetiche si può fermare la dipendenza da cocaina. Come non lo so ma non importa. Il sito sembra affidabile, i medici professionali, le testimonianze veritiere.
Quindi ne parlo ai miei genitori, ma la cosa finisce lì. Per il momento. Qualche giorno dopo però mio padre torna a casa con un articolo di Repubblica. Si intitola “ la luce che libera dalla cocaina” e racconta la storia di una giovanissima ragazza che riesce “ad uscire dal tunnel”. E l’articolo entusiasma me e tutta la mia famiglia che comincia a credere in una possibile soluzione. E’ così che ho trovato voi. Ed era questo lo stato d’animo in cui mi trovavo. Tra propositi, preoccupazioni e speranze.
Quindi arriva il 4 dicembre e arrivo alla clinica, accompagnato da mio padre e mia madre. Sono sereno, fiducioso. Sono calmo, più calmo dei miei genitori che forse si domandavano come fosse possibile. Nel frattempo sono riuscito a non assumere più sostanza, e questo rafforza in me la convinzione che questa sia la volta buona.
La clinica mi offre un grande senso di sicurezza. Mi immaginavo di arrivare in un grande e freddo reparto ospedaliero mentre mi ritrovo in uno spazio caldo e confortevole. Il personale mi appare sin da subito professionale. Sono accolto da un grande senso di calore: nessuno mi guarda dall’alto in basso, con l’aria di superiorità. Vengo trattato da persona adulta, e non da mascalzone o bandito, come molto spesso è accaduto in altri tipi di struttura.
La stimolazione risveglia in me una forte emotività che mi investe completamente. Ritrovo quel calore che mi fa gioire. Il mondo è una meraviglia da scoprire. E io faccio di nuovo parte di esso. Ogni evento o persona scaturisce una vibrazione dentro me. Sono le emozioni che ricomincio a sentire con tutta la pienezza di cui avevo perso memoria. E soprattutto, a poco alla volta, mi accorgo che situazioni in cui normalmente avrei sperimentato un forte desiderio non mi fanno più così effetto. Il piacere della cocaina è un ricordo lontano, come quando la mattina al risveglio da un sonno profondo si cerca di ricordare un sogno che però svanisce davanti ai nostri occhi. Ce l’abbiamo davanti, ma appena si cercano di ricordarne i particolari esso ci sfugge e non rimane che una sensazione lontana.
E così mentre le settimane passano, ogni volta che riparto dalla clinica ho l’impressione di aver lasciato per strada qualcosa. L’impressione che si ha quando si esce di casa e ci siamo dimenticati di prendere qualcosa di importante, ma non sappiamo che cosa. E mi piace far corrispondere questa sensazione proprio al fatto che il ricordo del piacere della cocaina stia svanendo e la parte malata della mia mente stia di volta in volta guarendo. Così ho la percezione concreta del lavoro della macchina che ha il potere di inibire quelle proteine responsabili di risvegliare in me la fame irresistibile.
Durante i mesi del trattamento non è sempre tutto rosa e fiori. Così, se da un lato sto guarendo, dall’altro le ferite dell’anima non si rimarginano così velocemente. Ci vuole tempo. La negatività si fa spesso sentire negando la bontà di quello che sta succedendo. “Prima o poi il craving si rifarà sotto e io non avrò scampo.” Un giorno, dopo un forte malessere, arrivo a ricercare dentro di me il vecchio demone. Siamo alla resa dei conti: voglio vedere fino a che punto il trattamento sia stato efficace. Voglio far svanire l’angoscia e il rimedio che conosco è pensare alla coca. Così mi metto alla prova. Ma questa volta non riesco ad innescare il desiderio, almeno non a tal punto da farmi perdere il controllo. Sono in una fase dove ancora non credo fino in fondo ad una possibile guarigione e questo episodio, paradossalmente rafforza la fiducia nella cura.
Per la prima volta riesco a vedere chiaramente una mia problematica che evidentemente va al di là della dipendenza, e che probabilmente arriva da lontano. Adesso sono pronto per affrontare tutte le difficoltà di quel ragazzino che, abbagliato dal miraggio di una vita senza fatiche e dolori, non ha mai voluto vedere. E insieme tutto quel bagaglio di esperienze negative e fallimenti che inevitabilmente hanno finito per lasciarmi delle cicatrici nella parte più profonda del mio essere. Dentro di me c’è una parte a cui ancora devo dar voce, un lato oscuro ancora da comprendere. Ma probabilmente, senza l’aiuto concreto che sto ricevendo non avrei avuto modo di mettermici a confronto. E nonostante le mie insicurezze ed i fantasmi del passato, sono sicuro di aver imboccato la strada che mi porterà verso la luce. Si potrebbe dire che, guarita la mente, adesso devo occuparmi di far guarire il cuore.
Ogni giorno scopro cose nuove di me, a volte sbaglio. Ma gli errori e le difficoltà non sfociano più in distruttività e pensieri fallimentari. Anzi, essi sono occasioni di accettazione, di crescita e cambiamento. Con sempre maggiore serenità riesco a gestire anche le mie emozioni negative e le frustrazioni della vita quotidiana.
Riflessione conclusiva
Se mi guardo allo specchio, adesso vedo una persona nuova. Le vecchie esperienze mi sembrano lontane anni luce. Se nei precedenti percorsi mi sono sempre dovuto sforzare di far emergere in me un cambiamento, adesso esso è arrivato come la cosa più naturale del mondo. In cosa consiste e dove mi stia portando ancora bene non so. Esso è un vento fresco che ha mi ha investito e da cui adesso mi lascio trasportare leggero. L’aria che respiro adesso è un’aria nuova.
Giorno dopo giorno ho sempre maggiore fiducia in me e la consapevolezza delle mie risorse per affrontare la vita si fa sempre più forte. Ciò che prima appariva un miracolo, sembra essersi realizzato. Ho sempre saputo che i manuali di medicina parlano di dipendenza come una malattia cronica e recidiva, in altre parole inguaribile. Ma quello che mi ha offerto Gallimberti è qualcosa di nuovo e quello che sto vivendo è la prova che essi presto si dovranno aggiornare. Ho un debito di riconoscenza verso il professore, a cui devo tutto, ma proprio tutto. Ringrazio Cristina che continua a sostenermi e la dottoressa DeMarchi. Ringrazio tutto il personale della clinica per la squisita gentilezza.